Autrice, regista, docente, si è laureata in Filosofia e diplomata in regia alla Civica Scuola di Cinema Luchino Visconti. Maria Arena ha realizzato cortometraggi, documentari, videoclip, videoinstallazioni, spettacoli teatrali e tre lungometraggi: l’ultimo di questi è il documentario sui catanesi – come lei – Uzeda.
Maria, come si diventa regista?
Ogni regista ha una storia del tutto particolare, inoltre la regia è una pratica che si esercita in tanti campi un po’ come l’architettura, poi è un lavoro artigianale ma anche artistico, scientifico ma anche, a mio avviso, filosofico, la regia dispiega in ogni film una visione del mondo, Weltanschauung. Poi c’è il mondo del cinema che è un sistema fatto da sottosistemi e lavorarci ha a che fare con molte variabili. Puoi fare una scuola o direttamente la gavetta, puoi conoscere la persona giusta o non conoscerla mai, lavorare nel campo che ti piace o dover lavorare in quello che non ti appassiona del tutto. Il mio percorso è fatto da tante strade, la formazione teorica in Filosofia con specializzazione in Comunicazioni sociali e la pratica alla scuola di cinema visconti di Milano, ma prima di tutto avevo comprato una Hadycam Video 8 con la quale sperimentavo, facevo corti e li mandavo ai festival, e poi quando venni selezionata al festival di Bellaria nel ’92, credo, presi più coraggio, poi quando uno stilista di moda a Milano (Saverio Palatella) investi dei soldi per girare un corto con la mia regia presi ancora più coraggio, e così via. La sperimentazione personale ha un ruolo importante, io ho sempre sperimentato, prima di fare il primo lungometraggio a 45 anni ho fatto corti, ho lavorato in ambito commerciale per la moda e la musica, ho fatto live per le musiche di Stefano Ghittoni (The dining rooms) come VJ con pellicole super 8, facevo video per spettacoli di danza con Emma Scialfa, e sperimentazioni in spettacoli multimediali con Emanuela Villagrossi etc.
E tu, quando hai deciso che questa sarebbe stata la tua professione?
Nella nerezza dei miei vent’anni l’unica certezza dentro il mio cuore era: qualsiasi cosa farò è con le immagini in movimento, il cinema ma anche il video, e ciò ha radici lontane, nella mia infanzia. Ho avuto una educazione molto protettiva dove avevo accesso solo ai rituali della classe borghese da cui vengo e per lo più non potevo uscire, quindi non conoscevo altro mondo che quello d’origine. I film che vedevo nelle TV private insieme a mia nonna, che puntualmente si addormentava, mi parlavano di altri mondi ed io volevo conoscere tutto e il mezzo è diventato il messaggio… la stessa nonna faceva pure la proiezionista in casa con un proiettore 16mm e le pizze in pellicola a noleggio presso la San Paolo Film… così tutti i sabati dell’infanzia al posto della TV o di Netflix noi vedevamo un film proiettato in salotto su un grande schermo, ed io sognavo mondi e li scoprivo. Quella è stata la mia scuola preferita
Quali sono le storie, i progetti che ti attraggono, che consideri meritevoli di essere raccontati attraverso la tua cinepresa?
Le cose che racconto sono il risultato di un processo di conoscenza che faccio io per prima, il motore è l’innamoramento per qualcosa che non conosco e che voglio conoscere, che è poco conosciuto nella prospettiva in cui mi appare, così decido di incamminarmi in una esperienza che cerco di trasmettere con i film. Come se facessi un viaggio e poi lo rifacessi ogni volta insieme al pubblico. Di solito mi interessano le storie sommerse o segnate da pregiudizi o ai margini, la loro potenza sommersa mi stimola a volerne sapere di più, andare a vedere come stanno le cose mettendo tra parentesi il già noto, le etichette, i giudizi degli altri. Queste storie che poi emergono nei miei film alla fine gettano sempre luce sulla società in cui viviamo, è per me importante tirarle fuori, metterle in evidenza.
A livello tecnico, come si caratterizza la tua regia?
Il tempo nel cinema documentario ha una cadenza legata alla storia che si sta seguendo, poi ci sono anche le scadenze burocratiche, ma per me se non entro nella cadenza della storia e dei suoi protagonisti non è possibile accedere al cuore della questione, o meglio non è possibile fare davvero esperienza diretta. Così Inizio un film documentario seguendo da sola le persone e la loro storia che si dispiega nel tempo. Questa libertà bellissima di non dover rendere conto a nessuno ha delle conseguenze però, diciamo che è il mio metodo, io so fare così, così sto bene, ma ha un alto grado di rischio economico. Poi quando ho colto, trovata la strada, lavoro con la troupe, ed inizia il lavoro di coppia con il Direttore o la direttrice della fotografia e poi con il montatore o montatrice, figure che nel cinema documentario sono come dei co-autori/autrici del manufatto finale. In una parola sono ‘le relazioni’ la base del mio metodo se così si può chiamare, e la profondità di questi legami ogni volta si rinnova nel livello di profondità di conoscenza della cosa.
Se dovessi scegliere solo tre influenze – film, libri, musica, persone, movimenti, … – che hanno contribuito a plasmare Maria e la sua visione, quali sarebbero?
“Una stanza tutta per sé”, “La signora Dolloway” e “Le tre ghinee” di Virginia Wolf
“La storia’ di Elsa Morante
“La bocca del lupo” di Pietro Marcello
Bach e Patti Smith
I centri sociali milanesi come Conchetta, con la libreria Calusca di Primo Moroni, e Leoncavallo, anni ’90. La Nouvelle Vague e dogma ’95.
Il professore Pitrone di filosofia al liceo classico san Giuseppe delle suore domenicane di Catania ci parlava di Turing, e della sua macchina, e di Marcuse negli anni ’80, lui e stato come una astronave nel deserto, quando in divisa azzurra eravamo solo donne in classe.
In ”Uzeda Do It Yourself” oltre alla ricostruzione di un percorso unico nel panorama musicale italiano, emerge un ritratto che è quasi una celebrazione di cosa significhi essere indipendenti nel settore artistico: senti vicina questa attitudine?
Certo e me lo posso permettere perché ho anche un altro lavoro, sono docente di cinema all’accademia di belle arti di Catania.
C’è un aneddoto legato alla realizzazione del film che ti è più caro rispetto ad altri?
Quando misi i microfoni a Steve Albini per la prima intervista, ero da sola sul lungo fiume a Torino e armeggiavo e non sentivo dalle cuffie mentre lui paziente mi guardava, ed io pensavo “sto mettendo i microfoni a Steve Albini uno dei più importanti sound engineer del mondo…”.
Il crowdfunding per la realizzazione del doc è stato fondamentale, in Italia tuttavia è uno strumento a tratti bistrattato: come mai hai scelto di utilizzarlo?
Considerando il mio modo di procedere spesso quando ho l’idea matura in testa ho anche già girato molto materiale ed è difficile che una casa di produzione ti porti ai bandi, così il crowdfunding l’ho dovuto fare già due volte. In realtà per la realizzazione dei documentari è uno strumento molto usato.
Steve Albini è stata e rimarrà per sempre una figura di culto nel rock: chi è il suo corrispettivo nel tuo settore?
È un paragone un po’ difficile, potrei dire Lars Von Trier per quello che ha fatto con Dogma ’95, oppure Wenders con i suoi road movie, oppure il dimenticato Fassbinder, sicuramente J L Godard, ma anche Cassavetes.
Oggi, una ragazza che entra nell’industria cinematografica, che situazione si trova davanti?
Appunto nell’industria cinematografica da indipendente non so come ci si entra.
Con ”Gesù è morto per i peccati degli altri” e ”Il terribile inganno” hai avuto modo di toccare tematiche legate al femminismo contemporaneo: perché, citando Chimamanda Ngozi Adichie, dovremmo essere tutte/i femministe/i?
Perché il femminismo come dice bene Bell Hooks è per tutt*, per tutt* coloro che sono anti-sessisti, e anti-razzisti.
Cinque imprescindibili pellicole da guardare, almeno una volta nella vita?
La risposta può cambiare nel tempo e la lista muta, ti do i primi 7 del momento:
“Le meraviglie” di Alice Rohrwacher
“Vivre sa vie/questa è la mia vita” di JL Godard
“The act of killing” di Oppenheimer
“Senza tetto né legge” Agnes Varda
“L’uomo con la macchina da presa” di Dziga Vertov
“Novecento” di Bernardo Bertolucci
“La stanza accanto” Pedro Almodovar