Jacopo De Blasio: l’intervista

Autodistruzione, bias, hardcore e innovazione tecnologia: pillole di arte coinvolgendo Basinski, Pavese e i Catharsis, con Jacopo De Blasio, storico dell’arte contemporanea, dottorando in Cultura visuale, contributor per diverse riviste di settore quali NOT/NERO, Antinomie, Kabul, TBD, e chitarrista negli Short Fuse.

Arte e musica, due facce dello stesso grande universo, ma anche due parti fondamentali della tua vita: puoi fare i nomi di una/un artista visivo e di una/un musicista o di un gruppo che ti rappresentano? Perché proprio loro?

Non so quanto sarebbero contenti di rappresentarmi, ma se dovessi darti due nomi di artisti o musicisti dai quali mi sento rappresentato o per lo meno ai quali mi sento in qualche modo affine, questi sarebbero sicuramente Gustav Metzger e i Catharsis. Entrambi, infatti, hanno utilizzato le rispettive forme espressive come un mezzo per veicolare messaggi che possano andare oltre il campo circoscritto dell’arte contemporanea o dell’hardcore, rigettando dogmi e stereotipi, nell’intento di affrontare contraddizioni e questioni complesse che riguardano tutti noi in prima persona, senza però rinunciare alla fruibilità dei loro rispettivi lavori. 

Come ci sei arrivato a iscriverti al dottorato in Cultura Visuale?

Mosso dalla voglia di confrontarmi con un approccio differente, se vuoi più ampio, rispetto alla storia dell’arte tout court, soffermandomi in questo caso su altri argomenti che mi interessano molto, come postcolonialismo e decolonialità. 

L’arte quale settore lavorativo: utopia o realtà?

Diciamo che dovrebbe essere una realtà, ma spesso rischia di diventare un’irritante utopia. 

Di cosa e di chi ti occupi, e come te ne occupi nel tuo quotidiano professionale? 

Nella mia quotidianità professionale mi occupo per lo più di arte contemporanea, libri e biblioteche. Lavoro come bibliotecario in un museo di arte contemporanea a Roma, il MAXXI, ma sono anche il segretario della sezione regionale dell’associazione italiana biblioteche e collaboro con alcune riviste di settore. 

Quali sono tre artiste/i che dovremmo assolutamente conoscere? 

Se dovessi consigliare tre nomi a una persona che non fa parte del mondo dell’arte contemporanea, suggerirei Bouchra Khalili, Paolo Cirio e Marguerite Humeau, focalizzandomi tra quelli meno noti al grande pubblico.

L’arte contemporanea è spesso soggetta a bias e messa in discussione: qual è a tuo parere il motivo di questa percezione stereotipata? Come è superabile? 

Spesso si tratta di un bias alimentato dagli stessi addetti ai lavori. Utilizzare un linguaggio contorto e aulico o addirittura non tentare neanche di spiegare le opere in mostra non fa che respingere il pubblico. E le gallerie, complice anche la difficile situazione professionale del settore, osservano spesso degli orari di apertura che risultano assolutamente improponibili per tutti i lavoratori e le lavoratrici chi si trovano costretti a essere impegnati nei cosiddetti orari di ufficio.

Superare cliché e preconcetti non è sicuramente facile, ma a mio avviso, cercare di rivolgersi alle persone in maniera più diretta, servendosi di analogie più immediate o di parole facilmente comprensibili anche a chi non ha avuto la fortuna di passare anni a leggere Deleuze, Guattari o Bataille, potrebbe essere un punto di partenza. In fondo, l’arte contemporanea dovrebbe tentare di raccontare il presente no?

Autodistruzione: storicamente inscindibile all’arte, estremamente connessa con la parte umana dell’artista, un fenomeno al centro del tuo nuovo libro, “Arte autodistruttiva. Per un’estetica della repulsione”. Perché hai scelto di posare gli occhi proprio su questo tema? Qual è il suo aspetto più interessante?

L’intento del libro è di raccontare una parte ancora frammentaria e, per certi versi, inedita della storia dell’arte contemporanea, guardando da un punto di vista differente anche opere già celebri. Uno degli aspetti più interessanti di questa tendenza, almeno per me, è proprio l’eterogenea ed effimera restituzione di una pulsione radicata nella stessa natura umana.

All’essere uno storico affianchi l’essere il chitarrista di una band hardcore: c’è una qualche connessione tra questi due mondi? Come si compensano?

Se in passato l’arte contemporanea condivideva con l’hardcore punk non solo una certa estetica ma, soprattutto, un approccio spesso DIY, oggi questa affinità mi sembra stia scemando. O meglio, mi sembra sia passata in secondo piano rispetto alla condivisa inclinazione all’autoreferenzialità. Sia l’hardcore sia l’arte contemporanea rischiano a volte di parlare solo ed esclusivamente al proprio pubblico, quasi rifiutassero un confronto potenzialmente proficuo con l’esterno. Credo però che, allo stesso tempo, l’immediatezza e l’attitudine partecipativa dell’hardcore si possano trovare ancora oggi in molte opere d’arte.

E se dovessi ricostruire una mappatura dell’autodistruzione, spaziando nel tempo e tra tutte le diverse forme artistiche, non solo focalizzandoti sulla musica, ma considerandole per quello che si può, tutte, quali nomi, quali lavori includeresti?

Rintracciare altri esempi di lavori autodistruttivi non è così semplice. In ambito architettonico, ad esempio, si potrebbe pensare ai padiglioni temporanei, pensati proprio per essere distrutti dopo un breve arco temporale. Mentre guardando alla musica, si potrebbero prendere in considerazione più che altro quelle registrazioni incise su supporti digitali o analogici destinati a deperire nel tempo, come The Disintegration Loops di William Basinski. Non ti nego che non sono troppo convinto della risposta! Se invece si prende in considerazione la propensione autodistruttiva di personalità riconducibili anche ad altre forme espressive, la lista diventerebbe infinita, passando da Cesare Pavese a GG Allin in un attimo.

Tecnologia e media: che peso hanno sull’autoproduzione e più in generale sulla produzione artistica? Quando un prodotto frutto della creatività si definisce arte?

Per quanto sia un grande appassionato di supporti analogici, che siano libri o vinili, penso che la tecnologia costituisca un mezzo abbastanza egualitario sia di produzione, sia di promozione delle proprie opere. Certo, i discorsi relativi all’abbassamento della soglia di attenzione collettiva sono ormai noti a chiunque. In generale, però, l’innovazione tecnologica non dovrebbe essere demonizzata, anzi!

Stabilire in maniera puntuale cos’è un’opera d’arte penso sia un compito più o meno impossibile: è una domanda a cui non so come risponderti.

Esiste un filo trasparente, immaginario, che lega ogni espressione artistica e le rende, nelle loro diversità, estremamente simili?

A mio avviso sì, ma anche in questo caso, difficile dire come e in che misura: credo che ogni forma espressiva sia il frutto della rielaborazione di input e stimoli provenienti dall’esterno, necessaria a descrivere sensazioni, emozioni e impressioni comuni.