Una storia avvincente e appassionata di attese, rituali, disavventure, incertezze. Il racconto di una giornata magica, quella del 28 Ottobre 1984 e del super derby Milan-Inter. Ce ne parla meglio l’autore, giornalista e scrittore Paolo Pasi.
Come nasce l’idea di scrivere un libro su una delle tue grandi passioni, il calcio? Come nasce questa passione? E’ oggi ancora viva?
La passione è più viva che mai, e questo fa capire che il morbo del tifo, una volta contratto, non scompare più. In me è nata da bambino, all’età di sei anni, ma non posso dire che me l’abbia trasmessa mio padre. Lui era indifferente al calcio. La mia fu una scelta controcorrente rispetto al parentado di parte materna: una decina tra zii e cugini, tutti di fede interista. Ma io fui conquistato dai colori rossoneri e da un giocatore di talento chiamato Gianni Rivera.
Mi chiedi il perché di questo libro. Ho sempre desiderato raccontare l’intreccio tra passione calcistica e vita quotidiana. Se c’è una partita che racconta una storia molto più ampia del fatto strettamente sportivo, questa è per me il derby del 28 ottobre 1984. Avevo ventuno anni, uno studente in Scienze Politiche smarrito e incerto sul futuro professionale. Un giovane in crisi di orientamento in una società che stava cambiando. Ero alla vigilia di un esame molto difficile, ma un amico – Andrea – mi disse che dovevamo abbandonarci alle emozioni di quel derby. Il Milan non vinceva da sei anni contro l’Inter, e schierava un attaccante britannico dalla lunga chioma e dal colpo di testa micidiale: si chiamava Mark Hateley. La speranza di una vittoria assunse fin dall’inizio i colori della possibilità di una rinascita. Con Andrea andammo allo stadio in un viaggio “pericoloso” sulla mia A112 che ci lasciò a piedi e che parcheggiai in via Novara. Tutto il resto è storia, verrebbe da dire, perché la partita fu memorabile e cambiò il copione di quei giorni tormentati. La sua eco è arrivata fino ai giorni nostri.
Oltre al racconto di questa fatidica giornata di derby milanese troviamo anche l’intreccio con un periodo socio/politico particolare dettato dallo sciopero dei minatori inglesi da una parte e l’arrivo in Italia della “Milano da bere”. Raccontaci.
In quei giorni si era nel pieno dello sciopero dei minatori inglesi, mentre in Italia si respirava l’aria del cosiddetto “riflusso”, una profonda deviazione di percorso rispetto alle traiettorie politiche del decennio precedente. D’un tratto “classe lavoratrice” non fu più sinonimo di “orgoglio di appartenenza”. Era appunto l’avvento della Milano da bere, della televisione commerciale, della musica influenzata dall’elettronica, dei vestiti chiassosi dalle spalline larghe, del primato del successo. Tutto questo mi trasmetteva disagio, mi sentivo a cavallo tra due periodi molto diversi, e la società sembrava sprofondare in uno stato di appagata acquiescenza. Forse era solo paura di crescere. Nel romanzo, il viaggio in auto verso lo stadio è continuamente inframmezzato da sensazioni opposte: l’entusiasmo dell’attesa, scandito dai cortei colorati dei tifosi, e la consapevolezza del presente, malinconico come l’autunno.
Quel giorno, San Siro diventò anche uno specchio sociale. Centomila persone erano accalcate sugli spalti, io nella curva sud degli ultrà milanisti, insieme a tanti altri giovani di periferia. In tribuna d’onore, sedevano l’allora presidente del Consiglio Craxi, il suo “delfino” Martelli, e uno stuolo di vip. Sembrava che il mondo si fosse dato appuntamento lì.
Tra i tanti “extra” che troviamo all’interno di “Il giorno di Hateley” anche le interviste inedite all’ex calciatore inglese Mark Hateley e all’ex difensore milanista Filippo Galli. Cosa scaturisce da queste interviste? Cosa hanno rappresentato per te -a livello calcistico- questi personaggi?
Entrambi giocarono quella partita. Sia Mark Hateley che Filippo Galli hanno raccontato di come all’arrivo in pullman allo stadio percepirono una sorta di corrente elettrica tra loro e i tifosi rossoneri. L’entusiasmo fu contagioso e divenne simile a un presentimento. Era la sensazione che il Milan avrebbe interrotto la tradizione negativa, che questa sarebbe stata la volta buona. Umanamente ho scoperto due persone di cuore, che serbano il ricordo di quella partita come uno dei più preziosi della loro carriera. Hateley segnò il gol decisivo del due a uno, reso celeberrimo da uno scatto fotografico che lo ha consegnato a un tempo sospeso. Lui svetta sul difensore interista, Fulvio Collovati, con un colpo di testa impressionante. Sembra arrampicarsi in cielo. Il pallone sta per entrare in porta. Centomila persone, sullo sfondo, trattengono il fiato.
È un’immagine dal fascino letterario. In quello scatto c’è la storia di un ragazzo britannico venuto a Milano per passione e fame di gloria, e che visse l’apice proprio in quel derby. Non si ripeté più a quei livelli, come se il suo stacco aereo eccezionale, spinto dai tifosi, esigesse un inevitabile contrappeso, il ritorno a terra per la forza di gravità della vita quotidiana.
Diverso il destino di Filippo Galli, all’epoca ventunenne come me. Al Milan aveva appena iniziato, lo attendevano gli anni trionfali delle coppe, degli scudetti, del ritorno alla vittoria del Milan di Berlusconi, che sarebbe arrivato due anni dopo.
Qual è l’immagine che ti porti nel cuore di quel 28 ottobre 1984? Oggi partecipi ancora con tanto entusiasmo alle partite del Milan? In che modo è cambiata la curva negli anni?
Porto nel cuore il momento del gol decisivo, al sessantatreesimo minuto del secondo tempo. Hateley si elevò nell’area interista. Riuscii a vedere il suo colpo di testa, ma decine di persone si alzarono e io potei intuire il gol solo per il boato immenso della curva. Mi ritrovai travolto da altri tifosi, urlando la mia gioia, almeno cinque o sei gradoni sotto la mia posizione di partenza. Fummo come un’unica entità, in quel momento: giocatori e tifosi collegati da una specie di euforia elettrica, un gruppo di esagitati felici.
Non ho mai dimenticato quel momento, mi sembra di esserci ancora dentro. Oggi, dopo una quarantina d’anni di domeniche passate a San Siro, vado allo stadio molto più di rado. Il calcio è cambiato, si sa: le partite non iniziano più alla stessa ora, i posti sono tutti numerati, e la gente può arrivare a ridosso della partita. Manca l’attesa di ore trascorse ad addentare un panino, a ripararsi dal freddo o dalla pioggia, a cantare i cori d’incitamento. La curva si è trasfigurata, la Fossa dei Leoni – cui ero iscritto – resiste nella memoria, ma è stata rimpiazzata. Meno romanticismo e più business. Credo che il giorno di Hateley si collochi proprio in una fase spartiacque per il calcio. Il futuro stava per arrivare. In tutto questo, il mio entusiasmo, la mia “malattia” resiste al tempo. Basti pensare che nell’ultimo derby, vinto dal Milan, mi sono abbandonato alla stessa euforia. Risultato identico, due a uno, deciso anche in questo caso da un colpo di testa, quello di Matteo Gabbia, nella stessa porta, sempre nel secondo tempo. Quasi una replica e un omaggio ad Hateley. Un segno del destino.
C’è un messaggio specifico che il tuo nuovo lavoro editoriale vorrebbe veicolare?
Penso che non si debba avere paura dei propri ricordi: non necessariamente si tingono di nostalgia, ma possono dare la possibilità di confrontarci tra ciò che siamo stati e ciò che siamo ora. Scrivere questa storia mi ha fatto capire che, a distanza di anni, non cambiamo così tanto come persone.
La seconda cosa è che il calcio non è poi così futile come pensano i non tifosi, quelli che non hanno contratto il morbo. Mio padre, che quel giorno mi venne in soccorso dopo la partita per riparare la mia auto, quell’uomo così generoso da superare il suo “agnosticismo” calcistico per amore di figlio, mi chiese <Ma cosa ti cambia nella vita se il Milan vince o perde?>
Beh, caro papà, a me quella vittoria ha cambiato la prospettiva di giorni altrimenti tormentati, ha avuto un effetto antidepressivo e mi ha fatto superare il tanto temuto esame universitario. Tre giorni dopo, era mercoledì, presi trenta in diritto privato, e sono convinto che l’energia del derby appena vinto mi spinse verso l’alto come era accaduto ad Hateley. Per me quella partita è stato il preludio di una rinascita.
Ci vuoi segnalare i prossimi appuntamenti legati alla presentazione del libro?
Il primo appuntamento è alla Cooperativa La Liberazione, in via Lomellina 14, a Milano. Sarà venerdì tredici dicembre, alle 18. Ci tengo molto, perché è proprio davanti a un calice di vino rosso in questo storico locale che ha preso vita l’idea di dedicare un libro al giorno di Hateley. Avevo già in mente il titolo. Poi ho scritto la storia.