Visconti: l’intervista

Title Fight, binge listening, David Bowie e registrazioni casalinghe: quattro delle cose di cui si può parlare in un’ora di chiacchiera con Visconti – aka Valerio Visconti – skippando agilmente tra Piemonte, Stati Uniti e Regno Unito, mixando con naturalezza anni Settanta, Ottanta, Novanta e Duemila.

Due domeniche fa i NOFX, band estremamente cara e di riferimento per tante e tanti Millennials, si sono esibiti per quella che hanno dichiarato essere l’ultima volta: quale potrebbe essere un gruppo o un’/un artista di altrettanta rilevanza per la tua generazione, la Z, e che potrebbe scatenare lo stesso sentimento che hanno acceso loro, nel momento in cui si sciogliesse o decidesse di non esibirsi più?

Sai che faccio un po’ fatica a rispondere a questa domanda? Di base mi sento molto smarrito e non riesco a indicarti un progetto preciso, posso invece descriverti una serie di circostanze su come ho sempre percepito la musica io. In adolescenza ho ascoltato – e ascolto tuttora – cose non proprio contemporanee, ho sempre fatto fatica a trovare delle band vessillo, sia delle mie emozioni che interpretative della mia generazione; sicuramente il post-punk americano ha contraddistinto tanto la mia crescita e i passaggi importanti della mia vita. 

I NOFX li ho ascoltati un sacco, soprattutto quando skateavo, in quel periodo mi sono avvicinato alle band skate punk. Poi, con l’inizio del liceo ho scoperto l’hardcore punk di cui ho esplorato un po’ tutte le derive, anche suonandole… la band che ho avuto a quei tempi è stata importantissima per me! Tra i gruppi che ho ascoltato in quel periodo mi vengono in mente Cloud Nothings e Title Fight, ma non sono mai riuscito ad affezionarmi così tanto a un progetto al punto di rimanerne scioccato pensando che possa sciogliersi: paradossalmente sono sempre stato più spaventato dalle morti dei musicisti! In famiglia si ascoltava David Bowie, Lou Reed… sono stati tra i primi nomi a cui mi sono avvicinato: quando è mancato David Bowie, per me è stato uno shock… con il suo romanticismo e l’onirismo dei suoi testi ha fatto parte della colonna sonora della mia infanzia.

Sicuramente il pensionamento dei NOFX mi ha dispiaciuto, ma del resto, ogni volta che si viene a sapere che qualcuna/o non suona più, è sempre un po’ triste, al di là che possa piacere o meno l’artista in questione.

Una band che ti piacerebbe/ti sarebbe piaciuto vedere dal vivo?

Beh, forse i Title Fight: hanno sbloccato un sacco di cose in me quando avevo 14-15 anni. Vengo dalla provincia e non avevo vicino a casa neanche un negozio di dischi: ho iniziato ad ascoltare musica sfruttando gli algoritmi su Spotify e YouTube, spulciando le playlist. Questa ricerca digitale mi ha permesso di scoprire diverse band del mondo Pitchfork e in generale un po’ tutto il panorama alternative americano underground, a cui mi sono affezionato molto; a questi ascolti ho affiancato i dischi che avevano in casa i miei genitori: è stato un periodo di gran binge listening fondamentalmente di ogni genere, ma i Title Fight sono il progetto a cui rimango sicuramente più legato… ho riguardato tante volte i loro video live… assurdi, la rappresentazione dell’empatia e della fomentazione!

Da un paio di anni la musica non l’ascolti solo, ma la fai anche: di questo mondo che cosa ti piace? Quali sono gli aspetti che invece cambieresti? 

Mi piace la possibilità che si possano creare connessioni, anche senza trovarsi per forza in città nevralgiche come Milano, del resto, da quando si è iniziato a usare sempre di più Internet è possibile plasmare una rete di contatti e conoscenza in qualsiasi posto nel mondo!

Grazie a questa facilità sono riuscito a realizzare quando stavo ancora ad Acqui Terme il mio primo disco, a distanza, con Dischi Sotterranei, un’etichetta che in questi due anni mi ha fatto da mentore, supportandomi con una struttura e uno schema discografico solidi: mi sento fortunato nell’avere una realtà così alle spalle, che rispecchia il mio modo di fare e mi integra all’interno di un contesto caratterizzato da un intento comune, concentrarsi sulla qualità della musica, sulla ricerca, e non sul volere sfondare ad ogni costo. Peraltro, di Dischi Sotterranei fanno parte progetti che stimo e con i quali c’è un bellissimo rapporto, come per esempio Post Nebbia (moniker di Carlo Cobellini, n.d.V.): Carlo è un mio coetaneo e apprezzavo il suo lavoro già prima di conoscerlo, ora sono felicissimo di stare sotto la sua stessa etichetta. 

La possibilità di intrecciare relazioni umane che possano trasformarsi in collaborazioni professionali è forse l’aspetto che mi piace di più, poter avere l’occasione di intrecciarsi, in maniera sana e con l’intento di essere creativi e fare musica senza secondi fini: una condizione non scontata che non mi aspettavo di poter vivere in modo così semplice.

Cosa non mi piace? Che sono sempre meno i posti dove poter suonare e la FOMO che si può rischiare di provare in questo contesto storico di ipercreatività ed iperproduttività facilitato anche dalla tecnologia: può accadere di sentirsi indietro, ed è una sensazione che ho provato sulla mia pelle, specialmente quando ho scritto i pezzi di “Boy Di Ferro”, il mio ultimo album.  Volevo finire tutto subito ad ogni costo, li sentivo tantissimo, avevo paura che un po’ la fiamma si spegnesse, ero fermo da un po’ di tempo e attorno a me vedevo persone che pubblicavano in continuazione, mi sentivo sotto pressione… So bene che in questo momento storico si possa realizzare musica molto velocemente, in casa, mixando in una settimana, la tecnologia ha dettato nuove tempistiche per la realizzazione della musica, ma bisogna anche essere consapevoli che se si vuole fare musica suonata o comunque dove c’è un pensiero dietro, dei brani che raccontino pezzi di vita, si deve usare un metro di misura fatto di anni, esattamente come si misura la vita.

Hai dichiarato che vuoi scrollarti di dosso l’etichetta indie affibbiatati dopo il tuo primo lavoro, “DPCM”: eppure, se per indie intendiamo quello italiano dei Novanta e dell’inizio Duemila, parliamo di un universo molto vicino ai tuoi lavori…

Indie credo sia un termine profondamente equivoco, con un significato estremamente mutato nel tempo: se in Italia e in UK, è nato associato a un determinato tipo di musica alternativa che ho ascoltato, ha ispirato “DPCM” e sento mia, nel tempo ha cominciato a essere attribuito a quell’itpop edonistico in cui non mi ritrovo. Con la musica voglio provocare, instillare dubbi, mi sento molto legato al punk, alle commistioni di generi strani, a una durezza espressiva e alla voglia di dar fastidio che sicuramente non fa parte di ciò che oggi è chiamato indie

Tra l’altro “DPCM” l’ho realizzato con Favero, che con i suoi Il Teatro degli Orrori e One Dimensional Man, ho sempre ascoltato un sacco, insieme ad Afterhours, Subsonica, le band de La Tempesta… tutti progetti che fanno parte di quella sfera indie che ha contribuito a farmi scoprire che un altro tipo di rock è possibile.

A quali realtà invece ti piacerebbe essere accostato?

Sicuramente a progetti che hanno qualcosa da dire e un’attitudine internazionale, che va oltre gli stereotipi e i confini… come i Leatherette! Ho recentemente suonato a Trento, al Poplar, prima dei Viagra Boys: è stato un momento in cui per la prima volta mi sono sentito veramente capito dal pubblico, è stato bellissimo, c’era un’energia fortissima. Vorrei tanto provare a fare delle date all’estero, sempre comunque mantenendo il cantato in italiano.

E i tuoi riferimenti artistici? Quali sono? Quali sound ti affascinano al punto di cercare di replicarle nei tuoi dischi?

Sono ossessionato da tutta una scena lo-fi punk statunitense e mi piace come nel tempo il punk sia stato intellettualizzato e contaminato. Una band inglese che amo molto ed è stata di ispirazione per “Boy di ferro”, il mio nuovo disco, è quella dei Power Plant: di loro adoro come sappiano catalizzare l’energia, il punk frenetico, le sonorità, il connubio perfetto di hi-fi e marcitudine, ma anche l’immaginario un po’ gotico, i giochi di ruolo dalle punte horror…! Sicuramente sia negli arrangiamenti che nei testi sono una mia grande reference.

Al contempo mi piace molto tutta quella scena in ascesa di Philadelphia, quel revival showgaze grunge che gioca con l’elettronica, soprattutto di provenienza rave. Un esempio? I They Are Gutting a Body of Water, band che sembra figlia delle composizioni alla Alex G, ma con i fuzz, e contaminatissime dai Nirvana: mi piacciono le loro sonorità, l’uso della chitarra, molto simile a quello dei The Garden, che sono forse uno dei miei gruppi preferiti! Si tratta di un duo californiano composto da gemelli, basso e batteria, fanno un sacco di musica elettronica ispirata alla jungle, con un carattere hardcore punk fatto di bassi alla Minuteman, tutti distorti, e chitarre elettriche che mi fa volare veramente, una suggestione che catalizza la frenesia e ho cercato di inserire all’interno di “Boy di ferro”! Per il lato più mellow dell’album sono stato ispirato da Porches, artista americano, a tutti gli effetti un cantautore erede degli Strokes, band per me molto importante, che riesce a mettere nelle sue canzoni una visione elettronica d’insieme e al contempo trasmetterla sia nel sound sia nell’estetica.

Il tuo nuovo album si intitola “Boy di ferro” e la prima cosa che mi è venuta in mente trovandomelo sotto agli occhi è quanto ai ragazzi per un tempo infinito sia stato richiesto più o meno esplicitamente dalla nostra società e dal retaggio culturale in cui siamo immersi, di indossare fondamentalmente un’armatura e non lasciarsi andare. Sembra che le cose stiano cambiando, ma è davvero così?

Oggi c’è meno responsabilità del dover incarnare un determinato ruolo, che peraltro neanche dovrebbe esserci. C’è anche più educazione sentimentale, dialogo, si parla maggiormente di salute mentale, psicoterapia… Con questo disco cerco di distruggere ogni aspettativa, legata al genere musicale che propongo ma anche in merito a ciò di cui parlo: non voglio reprimere le emozioni e voglio essere me stesso, anche se questo significa risultare in qualche modo debole nei confronti di una società che ha dei tratti e delle sfumature ancora antiquati

In quest’epoca i social aiutano a condurre un dialogo su queste tematiche, ma non bastano, fa molto anche il contesto in cui viviamo, le persone con cui ci relazioniamo, l’attenzione che riponiamo per chi ci sta vicino. È importante come parliamo, quello che facciamo. La vita di ogni giorno è il contesto migliore per togliere le armature e abbattere gli stereotipi: la loro distruzione per me deve essere una crociata di tutte e tutti. 

Qual è la prima tua canzone che faresti ascoltare a una persona che non ha alcun tipo di idea di chi tu sia?

L’ultimo pezzo di “DPCM”, che in realtà è anche quello più diverso rispetto al resto dell’album, non è il biglietto da visita perfetto per ciò che faccio ma è uno dei brani a cui sono più legato… anche quando lo suono mi emoziona, è molto, molto, autobiografico, mi espongo tantissimo. Credo riesca a catalizzare tutta l’emotività che vorrei si percepisse nelle mie canzoni.

E la canzone – non tua – più bella del mondo? Qual è?

Domanda difficilissima, ma senza pensarci troppo e con sincerità ti dico “Perfect Day” di Lou Reed: come tante altre persone l’ho scoperta grazie alla colonna sonora di “Trainspotting”, l’ho ascoltata moltissimo e se dovessi immaginare, a 60 anni, che tipo di musica vorrei fare, forse sarebbe quella… con i violini glam, gli arrangiamenti orchestrali…  Se dovessi scegliere come diventare da grande, forse vorrei essere Scott Walker! 

“Perfect Day” ha quel modo lì di essere crooner senza per forza essere Frank Sinatra, e il suo testo mi fa venire la pelle d’oca ogni volta che lo ascolto. Probabilmente rispondere alla tua domanda con una “Perfect Day” è banale, non so… viviamo in questa epoca in cui sembra che si debba sempre cercare delle reference o comunque parlare di cose super underground strane…

Ah beh, con la banalità sei in buona compagnia, per me la canzone più bella del mondo è “Wonderwall”!

Ride (n.d.V.).

Torniamo a parlare delle tue ultime canzoni invece: come ci hai lavorato? Quanto troviamo nel disco di analogico e digitale? 

Come è capitato anche per “DPCM”, parte delle demo che ho fatto le ho realizzate in camera mia, solo che rispetto al mio primo disco è cambiata la location: dalla provincia, in campagna, registrando con gli strumenti prestati dalla mia band del liceo, sono passato a una stanza di un appartamento a Milano dove non ho proprio avuto la stessa libertà in termini di volumi. 

Lasciandomi influenzare anche dai miei ascolti ho deciso di fare un po’ leva espressivamente sull’esasperazione dell’utilizzo di sample di batteria, registrando la chitarra distorta dentro il computer, generando quell’effetto particolare che ne esce e sul quale ho poi lavorato con Carlo Porrini, aka Fight Pausa, che ha prodotto l’album: abbiamo giocato con i suoni del basso e della chitarra grazie al fatto che non fossero registrati da un amplificatore. Gli arrangiamenti sono stati fatti in maniera molto meccanica, computer-based: è stato un lavoro per me interessante anche perché molto antitetico rispetto a quello invece fatto per “DPCM” dove invece c’è stata proprio la volontà di realizzare un album suonato, che portasse con sé quelle inesattezze dovute alla performance umana. In “Boy di ferro” abbiamo cercato di rendere tutto più asettico, aggiungendo però distorsioni, glitch ed effetti che non si possono riprodurre se non con un computer.

Chiaramente dal vivo i pezzi suoneranno diversamente e questa differenza rispetto all’album mi piace molto. Sul palco saremo in quattro, tra cui Carlo come secondo chitarrista e il batterista della mia band del liceo: voglio che si percepisca tanta energia, molto rumore, che il pubblico possa sentirsi scosso! Cosa si deve aspettare chi viene a vederci? Un live molto simile a un concerto punk hardcore, con pezzi tutti tirati e urlati molto veloci.

Abbiamo avuto la possibilità finora di fare solo set corti, per questo spesso abbiamo scelto di proporre solo i pezzi più incazzati, ma mi piacerebbe poter suonare di più e aggiungere in scaletta anche i brani più cantautorali del repertorio, per mostrare al pubblico la mia doppia natura.

Dove vi vedremo nei prossimi mesi? 

Sicuramente a Milano, Roma e Bologna, e poi, ovviamente, alla Festa di Dischi Sotterranei!

Se potessi scegliere l’opening act del tuo prossimo tour, chi sceglieresti?

Paolo Schiamazzi, ha aperto recentemente all’Arci Bellezza di Milano il live di Astrid Sonne… fa un tipo di musica pazza, senza tempo!


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