Marco Capelli: l’intervista

Tra i mille e i duemila concerti flaggati e trent’anni fa a spasso per Milano con i Green Day prima dello storico live al Bloom di Mezzago: Marco “Cap” Capelli è un (sagittario) cultore e collezionista di (quasi) ogni forma di arte audiovisiva, contributor per Salad Days, appassionato di cucina e viaggi nonché l’Eugenia Barruero del primo numero cartaceo di Container.

Tra aneddoti, consigli per la visione e considerazioni intergenerazionali, ha ripercorso i suoi quasi cinquant’anni a base di musica (e non solo).

Il disco che ancora ti scalda il cuore dopo tutto questi anni, quello che invece hai totalmente abbandonato a se stesso e il concerto più inaspettato (in bene o in male) di cui hai memoria?

“Lo spirito continua” dei Negazione, per quanto non sia necessariamente il mio preferito in assoluto, penso sia il più importante. Musicalmente è aggressivo, spigoloso, disperato e mi pare si sia mantenuto molto bene nei suoi quasi quarant’anni. I testi non sono troppo espliciti ma comunque efficaci, per me è stato decisamente formativo. Non ho mai avuto modo di vederli dal vivo, ma in occasione di una ristampa di Shake Edizioni nel 2012 ho avuto occasione di parlare con il compianto Marco Mathieu e penso sia una chiacchierata molto interessante, tuttora reperibile nell’archivio online di Salad Days.

Riguardo ai dischi che riposano in pace, ho abbandonato non solo dischi ma interi generi musicali, l’ideale filone che ai miei occhi va dagli Youth of Today a gruppi più recenti come gli Speed è uno di quelli che ormai sopporto poco, l’hardcore un po’ troppo ginnico fatto di canotte, unity e family, quei dischi se ne sono andati anche fisicamente dalla mia vita!

Sui concerti, devo dire di essere diventato un ascoltatore dei Trail of Dead piuttosto tardi. Li ho visti qualche volta solo dopo il 2010, quando erano ormai usciti dalla fase distruttiva sul palco e l’impressione di quei concerti era che mi fossi perso per anni un gruppo incredibile.

Sapresti a spanne conteggiare i concerti ai quali hai partecipato? 

Direi più di mille ma meno di duemila, a me paiono soggettivamente tanti ma è tutto relativo, conosco persone con numeri molto più alti! Aggiungo che da qualche anno è iniziato un ciclo piuttosto pigro quindi non sto aiutando la media…

Sappiamo che eri con i Green Day al Bloom: raccontaci com’è andata!

I Green Day hanno suonato al Bloom nel maggio del 94, al tempo avevo una fanzine con un fonico del locale, Michele, che il giorno prima della data è stato coinvolto per intrattenere il gruppo che stava in un albergo di Trezzo. Io, lui e Luciano – chitarrista dei DeCrew – siamo andati a recuperarli e li abbiamo portati a Milano, zona Brera, Duomo, era un lunedì sera e la città era piuttosto deserta. Ora, io non ho molti ricordi precisi, ci sono cinque fotografie che documentano la serata, ma di recente Luciano mi ha invitato a rileggere quello che avevo scritto sulla fanzine (l’articolo, è stato gentilmente scansionato da Cap ed è riportato in calce all’intervista*, n.d.V.) e direi che Tre Cool aveva rubato la scena, con la collaborazione del loro fonico, pure presente. Nell’ordine, ha dato show con lo sportello in Buenos Aires, ha provato a scavalcare una cancellata, si è infilato in un evento privato in Galleria e ha rischiato una rissa con il personale all’entrata del defunto Burghy, venendo recuperato da Billie Joe con le parole “this time I won’t save your ass”. La cronaca dice anche che ha inseguito un paio di tram, ha battibeccato con un tizio la cui colpa era avere i capelli lunghi e un adesivo degli Extrema, e ha chiuso la serata rappando per dieci minuti sul sedile della mia auto. Gi altri due erano decisamente più tranquilli, mi chiedo a questo punto se le ragazze scozzesi che gli hanno pagato da bere si ricordino a loro volta di averli conosciuti! In seguito, abbiamo ironizzato più volte sul fatto che avremmo potuto usare meglio i soldi della Warner/Reprise ma non sono troppo sicuro ce ne fossero in quella circostanza, così come sono certo che avremmo potuto inventarci un contatto più duraturo con loro e invece io li ho visti solo al Bloom!

Dai, fuori un altro aneddoto legato all’esperienza musicale!

Restando nell’ambito degli incontri inaspettati, una decina di anni fa io e Alberto (un amico comune n.d.V) ci siamo presi in carico bassista, batterista e fonico dei Torche per le 48 ore off che avevano nel mezzo di un tour europeo. Persone molto simpatiche che hanno beneficiato dello spettacolo acrobatico di un pizzaiolo bergamasco entusiasta di poterlo fare per degli stranieri, e che ci hanno poi seguiti in una serata piuttosto lunga e divertente finita con davvero tanti bicchieri sul tavolo.

Lo skate, una disciplina vicina all’arte, alla musica ma anche al tuo privato, per dieci anni hai avuto un negozio di articoli dedicati. Quali sono a tuo parere i suoi aspetti più stimolanti e i suoi esponenti più rappresentativi? 

Preciso innanzitutto che io non vado in skate, la parte più coinvolta era sicuramente il mio socio Checco.  Per il resto posso dire di avere toccato con mano la vicinanza tra musica e skateboard, dall’approccio do it yourself – ecco l’aspetto più stimolante – che condividono alla deriva più commerciale che il Warped Tour ha ben esemplificato in passato. Detto questo, di skater che ascoltavano punk rock o hardcore ne ho conosciuti davvero pochi! In compenso uno di loro, Emanuele/Kendall della provincia bergamasca, ha fatto per anni No Rules, una fanzine a tratti clamorosa per la passione che ci riversava. Di mio ho sempre avuto una fissa per Ed Templeton, mi piace il suo fare street photography, mi piace meno quando disegna, ma sia nelle mostre che nelle pubblicazioni è riuscito a unire bene i due aspetti ed è pure uno che menziona i Fugazi tra i gruppi preferiti! Anche lui è tra i miei intervistati per Salad Days e posso garantire che è davvero disponibile.

Parliamo di collezionismo. Dai vinili alle fanze e non solo: in cosa ti sei avventurato negli anni? Oggi, in un tempo in cui la facile reperibilità degli oggetti ha spento il fascino dell’attesa, ha senso il collezionismo? 

E pensa che il mio grande obiettivo degli ultimi due, tre anni è liberarmi di tutto! La ricerca in effetti per me è sempre stata una componente piacevole, ma vale anche per quando me ne vado in vacanza, chiamatemi pure se non avete tempo di farne di ricerche! In ambito musicale tieni però presente questo, a me piaceva ascoltare, leggere e informarmi, e per molto tempo questo desiderio è stato prettamente analogico. Avendo la predisposizione ad accumulare, mi ritrovo nel 2024 con parecchi dischi, riviste, libri e via dicendo, ma il collezionismo puro, dove si insegue il completismo di titoli e varianti, non mi riguarda poi troppo. Di qualche band ho una discografia completa, ma sono davvero pochissimi i dischi di cui ho copie multiple, “Lo spirito continua” di cui si parlava prima è uno di quelli. Anche una certa componente di sorpresa ha avuto il suo peso: per anni, in viaggio, sono entrato nei negozi di dischi uscendone con tre, quattro dischi sconosciuti e consigliati dal proprietario o commesso che fosse, solo basandosi su un paio di mie indicazioni. Una modalità di acquisto non sempre fortunata. Il fatto che ora abbia tanti libri di tema musicale, soprattutto indipendente, ha le stesse ragioni: mi piacevano, non ne uscivano moltissimi ed è stato facile creare la non voluta collezione in tre decenni. Ora le pubblicazioni sono molto più frequenti e talvolta mi pare manchino di qualsiasi redazione. Il collezionismo poi rinnova se stesso, se manca il fascino dell’attesa, crea quello per una variante più rara. Se vuoi giocare il mercato trova sempre il modo di fartelo fare, ha senso nella misura in cui sei disposto a concederglielo. 

Quasi paragonabile alla dimensione del collezionismo c’è la rubrica che hai creato sul tuo profilo Instagram, dedicata alle schiscette: com’è nata e come ti riesce di creare continuamente nuovi abbinamenti senza scadere nella ripetitività delle ricette?

Credo che la serie – nella sua estenuante numerazione – soddisfi semplicemente la mia necessità di accumulo, restando però in un ambito virtuale: sono solo foto e finalmente non sto accatastando oggetti qualsiasi! Nasce dalla necessità di nutrire me e la mia compagna – che si presta a un’ampia gamma di sapori e che quindi ringrazio! –, dal maggiore tempo libero che ho rispetto a lei e dal fatto che mi piace farlo. Gli abbinamenti sono stati spesso rubati o consigliati, ciclicamente mi interesso magari a un cuoco, a un libro, a un ingrediente, anche se un minimo di fantasia personale penso di averla sviluppata. Yotam Ottolenghi e le spezie mediorientali sono comunque la mania più recente e duratura!

Documentarismo, un’altra tua passione: la tua personale lista ”Dicono che è bello”, per citare Il Post, dei cinque titoli migliori da vedere?

Mi piace moltissimo un blocco di documentari su certe band indie degli anni 90, “Trasmission After Zero” sui Brainiac, “Kill All The Redneck Pricks” sui Karp, “The Story of Hard Luck 5” sui Rye Coalition, a cui posso aggiungere quelli su Tad e Melvins e anche” The Color of Noise”, il lungometraggio su Amphetamine Reptile. Ci sono dei tratti comuni – disagio, droga e rumore – che li rendono simili e ugualmente interessanti.

Lontani dai miei gusti personali, ho trovato molto piacevoli i racconti di Jandek on Conwood, su questo tizio che pubblica dischi per decenni senza mai comparire in pubblico, “You’re Gonna Miss Me” su Roky Erickson dei 13th Floor Elevators e “The Devil and Daniel Johnston”.

Tra quelli dedicati a particolari città e situazioni, “It’s Gonna Blow!!! San Diego’s Music Underground 1986-1996” e “Desolation Center”, che racconta di questa breve rassegna di concerti tenuti nel deserto californiano a metà anni 80, i gruppi vanno dai Sonic Youth agli Einsturzende Neubauten e ci sono queste vecchie riprese dal vivo parecchio surreali.

Una menzione va anche a “Don’t Break Down, a Film about Jawbreaker”, sia per il gruppo che per il cast di personaggi, mentre tra i titoli più noti, “Beastie Boys Story” è davvero molto bello che piacciano o meno i loro dischi. 

Con alle spalle praticamente quarant’anni da fruitore musicale: un consiglio per i tuoi coetanei che poco a poco si trovano circondati dai più giovani e un consiglio per questi ultimi che stanno il naso in questo mondo?

Che siano coetanei o più giovani, l’unica considerazione che potrei trasformare in consiglio è questa: non mettete l’accento sull’aspetto nostalgico. I gruppi si sciolgono e invecchiano ma ce ne sono sempre di nuovi da vedere e ascoltare, e per tener vivo l’interesse meglio dei ventenni che dei sessantenni che usano il palco come il tapis roulant della propria vecchiaia.

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*Estratto da “Gratuit pour les poulettes”, Numero 0, 1994


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