Chiara Antonozzi: l’intervista

Di cantieri musicali, ricerche letterarie, esistenzialismo e Rickenbacker: quasi duemila parole con Chiara Antonozzi, bassista di Lleroy e Kalergi, pilota di Double Nickels insieme a Matteo Cortesi.

Chiara in sintesi: scrittore, canzone e film preferiti.

L’austriaco Thomas Bernhard, con la sua scrittura asciutta, talmente razionale da diventare quasi psichedelica. In particolare ho amato “Il Soccombente” e “Perturbamento”.

“Especially Me” dei Low che è una sorta di inno per un’umanità sradicata, per me una delle canzoni più belle mai scritte. Tristissima e verissima.

“Society di Brian Yuzna, un horror di fine anni Ottanta. In generale sto in fissa con gli horror di critica sociale, e le scene finali di questo film sono state particolarmente… incisive.

Parliamo dei progetti che ti coinvolgono iniziando da quello che riguarda i libri?

Oh yes, Double Nickels: ti direi che però non è tanto una casa editrice, quanto una collana nata con l’obiettivo di dare voce a quello che scrivono alcuni musicisti degni di nota – per me e per il mio socio, Matteo Cortesi – quando anziché suonare si dedicano alla letteratura: in alcuni casi producono cose veramente interessanti che cerchiamo di selezionare e di pubblicare. Queste opere vanno a creare un dialogo, un’interazione tra forme d’arte che ci sembra stimolante. Quest’anno riprenderemo le pubblicazioni con nuovi titoli, il primo dei quali è una riflessione di Billy Bragg sul significato della libertà in un mondo dominato dal neoliberismo e dalle fake news.

Dallo scouting alla sua pubblicazione: come un libro entra nei vostri radar e poi a far parte della collana?

La ricerca dei titoli la facciamo io e Matteo semplicemente informandoci: quando veniamo a sapere dell’uscita di un libro che ci può interessare, individuiamo l’editore che l’ha pubblicato, lo contattiamo e ci facciamo mandare una copia in lettura.

Poi si acquisiscono i diritti e si procede con la traduzione; per questa fase ci affidiamo a professionisti che spesso conosciamo personalmente grazie alle nostre esperienze nel mondo editoriale, ad esempio Matteo Camporesi o Lorenzo Mari. Anche per le copertine ci rivolgiamo a collaboratori di fiducia. Dell’impaginazione invece mi occupo io, dopodiché si procede con la stampa… Per quanto riguarda la fase successiva, abbiamo scelto di saltare il canale della grande distribuzione, facciamo solo conto vendita diretta a una lista di librerie che ci contattano o a cui proponiamo noi direttamente i titoli: questa scelta è per noi fondamentale, ci permette di garantire la sostenibilità di Double Nickels e di supportare il circuito indipendente.

Cosa ti colpisce di un libro nel momento in cui scegli di leggerlo o acquistarlo?

Cerco di capire dove va a parare, per quale motivo è stato scritto, a quale esigenza risponde.

E se i Lleroy fossero un libro, invece, quale sarebbero?

Questa è una domanda incredibile. Se fossimo i NOFX la risposta sarebbe facilissima, saremmo un libro di Irvine Welsh. Ma non siamo i NOFX (ride n.d.V.)! Siamo un po’ un romanzo esistenzialista, stile “La nausea” di Sartre riveduta e corretta 70 anni dopo, una sorta di anti-romanzo di formazione che parla di gente che forse, se fosse nata in un altro Paese o in un mondo ideale, avrebbe fatto scelte di vita diverse, ma vive qui, costretta ad alternarsi tra la vita e il lavoro “normale” e la musica, con sforzi sovrumani. La recensione del libro Lleroy si chiuderebbe così: “Se l’autore fosse stato americano l’avrebbero letto più persone, sicuramente”.

Dopo tutti questi anni, qual è il motivo che non solo ti spinge a rimanere nella band ma riesce a renderti produttiva, creativa e appassionata al progetto?

La cosa che spinge ad andare avanti è che per quanto sia faticoso, continuare a fare musica ci dà indietro sempre qualcosa. Più si va avanti negli anni, più la fatica aumenta; ma ogni volta che siamo in giro a suonare, adrenalina a parte, entriamo sempre in contatto con persone che si trovano nello stesso posto per il medesimo motivo: queste interazioni sono un grandissimo motore che spero non si esaurisca mai. Mettici anche la consapevolezza sempre più netta che il tempo a nostra disposizione non è infinito, ed ecco un altro stimolo potente per cercare di creare qualcosa che possa sopravviverci, ovviamente senza nessuna presunzione.

Cosa avete in programma per i prossimi mesi?

Volevamo prenderci una pausa, sono già passati due anni dall’uscita di “Nodi” e stavamo pensando che potrebbe essere arrivato il momento di ritirarci un po’ per scrivere cose nuove, ma in realtà abbiamo già fissato diverse date autunnali: fino a dicembre compreso suoneremo in giro, poi probabilmente da gennaio ci fermeremo per scrivere il nuovo disco. Purtroppo, non è più come dieci anni fa quando facevamo più prove a settimana, quei tempi bellissimi sono andati: o ci si concentra sui live o sulla scrittura.

Per la musica quanto per tanti altri settori e contesti la pandemia è considerabile un vero e proprio spartiacque tra un prima e un dopo: c’è qualcosa che ti spaventa di questo dopo?

La pandemia ha effettivamente stravolto il modo di fruire e di fare musica, ma mi piace il fatto che l’underground sia ancora vivo: nonostante negli ultimi anni il numero degli spazi e la loro accessibilità si siano ridotti notevolmente, continuano a nascere collettivi di persone che organizzano concerti e festival; questa è una cosa molto positiva, significa che c’è interesse, gente disposta a rimboccarsi le maniche perché la musica succeda. La cosa che un po’ mi preoccupa è che si percepisce un certo senso di stagnazione: ai concerti ci si trova spesso a suonare davanti ad altri musicisti, agli addetti ai lavori. Sembra sempre più difficile comunicare con l’esterno, andare al di fuori dei circuiti già battuti, probabilmente questo è dovuto anche allo scarso ricambio generazionale che c’è stato a livello di gruppi che suonano generi diciamo rumorosi… Forse bisogna semplicemente prendere atto che un certo modo di suonare, di fare dischi, di scrivere, ha esaurito le sue potenzialità comunicative e bisogna cimentarsi in nuovi linguaggi.

E perché secondo te le donne sono ancora così poche a suonare nella musica underground?

È un discorso complessissimo.

Partiamo dal fatto che suonare un certo tipo di musica significa fare una scelta estetica non ordinaria e poi esibirla, esporre pubblicamente un lato di sé che ha a che fare con la sfera emotiva e con la propria capacità di metterla in comunicazione con quella degli altri: come in mille altri contesti, succede che le donne che fanno questo tipo di scelta devono sopravvivere a una serie di sguardi infinitamente più critici rispetto a quelli che vengono riservati ai colleghi maschi. Anziché limitarsi alla validità del progetto, di una musicista si tende a giudicare tante altre cose che non necessariamente c’entrano con quello che fa sul palco. Senza esagerazioni, capita ancora che alle donne non si conceda volentieri di appropriarsi di immaginari che cozzano con gli stereotipi a cui siamo abituati. Credo che la prospettiva di doverne subire le conseguenze funzioni da deterrente per molte, e porti al risultato che in certi generi musicali siamo ancora in netta minoranza.

In più, bisogna sfatare il mito che alcuni ambienti siano estranei al sessismo, che invece rimane un problema trasversale: nessuna scena ne è immune, nessuna controcultura ha mai sviluppato anticorpi abbastanza potenti. Le probabilità di subire o di assistere a comportamenti sessisti nel circuito musicale non sono mica più remote che in qualsiasi altro contesto sociale, e anche questo va messo nel conto. In compenso, in barba a tutto ciò mi pare che le presenze femminili sui palchi underground siano sempre di più, ed era ora!

Qual è il tuo setup?

Per un sacco di tempo ho suonato un Rickenbacker 4003, con il quale vorrei essere seppellita; anni dopo, con i Kalergi, ho scoperto il Precision e mi sono accorta, utilizzandolo anche coi Lleroy, che s’incastrava meglio con i nostri suoni e con le frequenze della chitarra. In più è parecchio più leggero e maneggevole, il che non guasta; quindi dal Rickenbacker sono passata al Fender. Mi piace in generale il suono di basso tagliente e rotondo di Big Black, Cop Shoot Cop, Jesus Lizard e affini; per quanto riguarda gli accessori, sono veramente ridotti all’osso: in pedaliera ho sempre avuto un distorsore, un boost e nient’altro… Per me avere troppi suoni diversi è poco funzionale nell’ottica di godersi il live. Se hai 600 pedali da schiacciare, non ti puoi lasciare andare!

Oltre al basso hai qualche desiderata, sogno sperimentale?

Mi è sempre rimasto il pallino di imparare a suonare bene la chitarra, che ad oggi so solo strimpellare… In futuro vorrei provare a mettere in piedi un progetto con una drum machine, sperimentare dando più spazio al digitale tra gli strumenti “classici”.


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